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Peste suina Africana: non è contagiosa per gli umani ma è necessario combatterla, i consigli del Presidenze Zumbo

mercoledì 6 Luglio - 2022 | di Ludovica Lazzaro | Categorie: Medicina veterinaria

A decorrere dal 2014 in alcuni Paesi dell’Unione Europea sono stati registrati i primi casi di Peste Suina Africana (PSA), una malattia virale che colpisce suini e cinghiali talmente contagiosa e letale per gli animali, da meritarsi, appunto, l’appellativo di peste.

Appellativo, che da sempre incute paura nella popolazione, ma che questa volta non deve creare allarmismi inesistenti per la salute dell’uomo che rischiano di oscurare le buone prassi da seguire per far sì che la propagazione della stessa possa placarsi, al fine di salvaguardare non solo la nostra fauna, ma anche la nostra economia.

Il virus infatti non è in alcun modo trasmissibile agli esseri umani, il cui ruolo nella malattia è invece determinante nella propagazione ai suidi che può avvenire per contatto diretto tra animale malato ed animale sano – accelerato dalla proliferazione di suini selvatici, cinghiali e suini ibridati che hanno ormai colonizzato e preso possesso di intere aree suburbane e periferiche dei centri abitati – ma anche per contatto indiretto attraverso residui di alimenti contaminati.

La storia insegna e non tutti sanno che la malattia, in Italia, è presente in Sardegna dal 1978, ma un’efficace operazione di contenimento ha fatto si che non valicasse i confini della regione, quindi oggi abbiamo intervistato due esperti, il Presidente dell’Ordine dei Medici Veterinari Dott. Luigi Zumbo e il Dott. Pietro Schembri, dirigente del Servizio Veterinario regionale, che fugheranno i nostri dubbi e con i loro consigli ci illustreranno le consuetudini da adottare per fare la nostra parte nella lotta contro la PSA.

Presidente Zumbo, ad oggi qual è la fotografia dell’Italia in riferimento alla PSA?

Dott. Luigi Zumbo: Nonostante le precauzioni messe in atto, nel 2022 sono stati registrati i primi focolai in Piemonte e in Liguria e recentemente anche nel Lazio. Questa distribuzione a macchia di leopardo, è indicativa di quanto una parte del rischio di trasmissione sia correlata all’uomo e alle sue abitudini.

Infatti, se da un lato possiamo stare tranquilli per la nostra salute, le nostre abitudini e la trasformazione della fauna selvatica, che abbiamo indotto negli ultimi anni, rischiano di mettere in ginocchio l’economica zootecnica.

Qual è, allora, l’aiuto concreto che possono dare i cittadini?

Dott. Luigi Zumbo: E’ fondamentale che non vengano introdotti alimenti a base di carne di suino da aree endemiche e prive della certificazione ufficiale. Altrettanto importante, è che gli escursionisti e i cacciatori non abbandonino alimenti di origine animale durante le escursioni. Inoltre, considerando l’imponente presenza di cinghiali e suini selvatici nelle nostre campagne, è consigliabile che i rifiuti a base di carne vengano riportati indietro e smaltiti attraverso i sistemi delle aree urbane (contenitori chiusi). Altra regola fondamentale è che turisti, escursionisti, cacciatori ed associazioni animaliste, svolgano un ruolo proattivo segnalando immediatamente l’eventuale presenza di una carcassa di suino o cinghiale alle autorità competenti, affinchè questa venga immediatamente sottoposta ai controlli previsti e smaltita in sicurezza”.

Dr. Schembri, abbiamo capito che il virus non è pericoloso per l’uomo ma anche che l’uomo può essere pericoloso per la diffusione della malattia, cosa ci dice a riguardo?

Dott. Pietro Schembri: Il virus è molto resistente, è in grado di resistere anche per molti anni a basse temperature. Non esistono vaccini né alcuna terapia e la resistenza del virus nell’ambiente esterno facilita l’endemizzazione della malattia, con conseguenze gravissime sull’allevamento suino. Il blocco della movimentazione di suini e dei prodotti di origine suina (salumi, prosciutti, ecc) costituisce un gravissimo problema economico per i paesi infetti. In Italia si stima che il blocco delle esportazioni di prodotti di eccellenza a base di carne suina provocherebbe una perdita del PIL pari al 3,5%.

In tale contesto l’unico modo per difendersi è costituito dall’adozione di comportamenti corretti da parte della popolazione, finalizzati ad evitare il passaggio del virus dai cinghiali agli allevamenti di suini domestici.

L’epidemia in Italia sta pian piano attraversando lo stivale, anche la Sicilia è a rischio?

Dott. Pietro Schembri: Il territorio della Regione siciliana non ha un patrimonio suinicolo domestico particolarmente significativo. infatti, con 2.024 allevamenti e 68.000 suini circa, rappresenta solo l’1,54% del patrimonio suinicolo nazionale, essa, tuttavia, ha il maggior numero di allevamenti suini allo stato brado e semi brado (1.516) del territorio nazionale e rappresenta pertanto un territorio a rischio poiché tali allevamenti possono facilmente venire a contatto con i cinghiali, che a causa dell’alterato rapporto uomo-animale-ambiente, si sono moltiplicati nelle aree montane (Madonie, Nebrodi, Peloritani, Monti Sicani ed aree interne) dove trovano situazioni territoriali idonee allo sviluppo, ma anche a nelle aree periferiche degli agglomerati urbani, dove la presenza di rifiuti facilità il reperimento di risorse trofiche.

Come sta rispondendo la Sicilia all’epidemia?

Dott. Pietro Schembri: Allo stato attuale in Sicilia è vigente un piano di sorveglianza che prevede il controllo delle popolazioni di suini selvatici segnalate, e di suini domestici ed è in corso di adozione un Piano di Interventi, urgenti di concerto tra Assessorati Regionali Salute, Agricoltura e Territorio e Ambiente, caratterizzato soprattutto dal controllo numerico delle popolazioni di cinghiali attraverso l’intensificazione del prelievo venatorio e l’aumento del periodo di caccia. Inoltre sono previsti interventi straordinari di monitoraggio all’interno degli allevamenti suini che permetteranno, anche, di implementare le misure di biosicurezza (recinzioni, misure gestionali etc.) per evitare che la malattia diffonda all’interno degli allevamenti”

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